PM – PensieriMossi
Il blog di Progetto Marconi
Ho letto di recente che prossimamente Google partirà con i suoi corsi certificati di altissima formazione. In sei mesi e a 300 euro acquisisci competenze strategiche per inserirti direttamente nel mercato del lavoro. Con una mano ti iscrivi, con l’altra paghi, con un piede accedi alla piattaforma. Tutto nello stesso momento. E in sei mesi hai fatto il tuo bel balzo in avanti. Alla faccia dei prodi (e proni) dottori magistrali di lungo corso.
Contestualmente sono stato convinto (da riviste specializzate nel dirmi cosa è giusto e cosa è sbagliato) che i giovani di oggi tendono ad accorciare la filiera tra il volere e l’avere, abbandonando presto ciò che si frappone. Un po’ come il carrello del checkout quando acquisti on line. In piena coerenza con l’era Click-App.
In tutto questo aggiungiamo che siamo sempre meno attenti. La soglia di attenzione infatti si è clamorosamente abbassata negli ultimi 20 anni e quindi se vuoi farti ascoltare, comprendere e carpire interesse devi metterci poco. Non cerco treni, il treno deve arrivarmi in faccia.
Facile capire perché siamo più soggetti ad ansia, stress e psicofarmaci. Perché noi “grandi” vediamo sfrecciare intorno a noi il tempo travestito da Bolt e non riusciamo a stargli dietro. Oggi fare tornei under 35 e over 35 è più che mai necessario.
Io non so su che basi mio nonno dicesse “ah i giovani d’oggi…”. Ma so per certo che oggi i Giovani d’Oggi sono diventati una categoria vera e propria, a differenza del passato. Un nuovo esercito, con una propria lingua, proprie abitudini e mezzi esclusivamente loro. Ed è qua che comincia ad incrinarsi sanguinosamente il rapporto tra Under e Over. Perché se a 5 anni smanetti su uno smartphone scrollando foto, facendo video casalinghi in stile You Tube e parli di APP si rafforza in me la paura che a 20 sarai una beota subordinata alla principale tecnologia. Non che avrai il futuro dalla tua. E quindi dammi il telefono e vai a giocare con le barbie.
Noi “grandi” abbiamo infatti tra i difetti di oggi quella che è stata fino a ieri la nostra più grande virtù: la misurazione del bene mediante il tempo. Una cosa che richiede tempo vuol dire che è fatta bene, che è fatta meglio. Il duro lavoro non è quello faticoso, ma quello faticoso che dura una vita. Per avere una competenza non basta un video, un giorno, 6 mesi. Servono anni di duro lavoro. Il lavoro è di 8 ore al giorno, 40 ore settimanali. La quantità cannibalizza. Se stai tanto su una cosa, dopo un po’ diventi quella cosa. Per questo d’istinto stacco mia figlia dal cellulare.
Ma lo scenario oggi è molto più complesso di prima, o diversamente complesso. Scopriamo ad esempio che la formazione, anche quella altissima e lunga durata, è slegata da ciò che vogliono le aziende. E quindi il blackout sforna persone e imprese che perdono occasioni. Vediamo anche che la maggior parte di chi lavora in azienda non è soddisfatto del proprio posto di lavoro, snodando la qualità dal porto sicuro della quantità.
Per l’ennesima volta ho la mente corrugata tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Per ora so solo che il sistema basato sulla misurazione del tempo ha cominciato da qualche anno a versare acqua sulle piastrelle.
E in attesa di approdare ad altri sistemi di misurazione forse dobbiamo solo astenerci dall’avere nasi storti solo perché non capiamo una nuova lingua generazionale. O perché non riusciamo a starvi dietro. Nonostante le nostre nuove e scattanti scarpette da corsa.
