La cultura della formazione
La cultura della formazione
di Danilo Rissone e Massimo Francone
Il governo francese ha messo sul piatto della formazione 15 miliardi di euro.
Bene.
Nel pieno del fervore politico di questo inizio 2018 non ho avuto notizia di un “rilancio” elettorale in grado di oscurare quel dato d’oltralpe. Forse sono stato solo poco attento. Ad ogni modo c’è un problema più urgente rispetto a cifre, dati, qualità e quantità.
Come ente di formazione ospitiamo ormai dall’inizio della nostra recente storia operativa (2013) i corsi obbligatori previsti per l’apprendistato professionalizzante. Ad ogni corso, negli scambi con gli allievi, è ormai una consuetudine ricevere questo tipo di feedback: “Pensavo di non fare nulla. Invece ho imparato cose interessanti e i docenti si impegnano… Non me lo aspettavo”. Sul lato aziende il risultato è il medesimo. La titolare di un centro estetico, accogliendo il nostro coordinatore formativo all’ultimo incontro previsto, ha spalancato un sorriso maestoso condito da un: “Complimenti, non me lo aspettavo. Con i “vecchi” apprendisti ero abituata a sentirmi dire che giocavano in classe tra di loro!”
Seppur felici, la morale non è felice.
Il 12,4% dei ragazzi tra i 15 e i 29 anni è impiegato col contratto di apprendistato. E di questi il 96,5% è assunto con la tipologia professionalizzante. Vuol dire che più di 380 mila giovani sono “intercettati” in processi formativi di alfabetizzazione professionale.
L’apprendistato quindi è una grande opportunità, a patto che lo si capisca.
La sensazione è che al di là di un ripensamento generale sul capitolo formazione, sia necessario ancor prima un lavoro di chiave inglese sul substrato culturale alla base. Non è filosofia, ma sopravvivenza nel mondo del lavoro di oggi e domani.
Il processo di lifelong learning affina il rapporto tra istruzione e formazione in un unico lungo condotto. E l’impressione è che, in caso di strumenti ricettivi non adeguati, difficilmente si potrà convergere su un buon risultato.
E’ lo stesso caso della cosiddetta cultura d’impresa, asset alla base di nuove reali opportunità di employability e di miglioramento delle performance rispetto a quel 1 su 2 di imprese che chiudono entro i 5 anni. Cultura di impresa e cultura della formazione poggiano sugli stessi cardini: long term vision, obiettivi certi, responsabilità.
D’altronde mai come in questi anni i comparti sono e devono essere fluidi: istruzione, formazione, lavoro e impresa sono facce di una stessa medaglia che tende sempre più a premiare l’oro e meno il bronzo. E’ per questo motivo che si parla di “cultura” e di “education” in ogni rivista di business o articolo che tratti temi d’ambito occupazionale.
Diceva qualcuno che “tutte le leggi sono brutte, ma è ancora più brutto il fatto di averne bisogno”. Possiamo adattare il contenuto alla frontiera della formazione obbligatoria: in apprendistato, in tema sicurezza sul lavoro e a breve sul capitolo privacy. Qualche sintomo positivo c’è. Uno lo fornisce una ricerca di Infojobs, secondo la quale il 53,1% delle aziende afferma che il trend più rilevante per attrarre nuovi talenti sia l’offerta di una formazione continua dei dipendenti. Un vulnus, che se vorrà diventare una voragine felice avrà bisogno come il pane di un’istruzione 4.0 e di un’alternanza scuola-lavoro finalmente uscita dal rodaggio.
Nel mentre noi proseguiamo ad intendere le aule, ove si muovono le imprese clienti e i ragazzi, nello stesso modo dal 2013: un momento di crescita & acquisizione strategica.
(articolo di Progetto Marconi inserito in Obiettivo lavoro di marzo 2018)