PM – PensieriMossi
Il blog di Progetto Marconi
Ho appena letto l’intervista a mister Netflix Reed Hastings, volàno per l’uscita in Italia del suo ultimo libro “L’unica regola è che non ci sono regole”. Avendo citato il titolo lo taggherò, vuoi mai che sia utile.
Nulla di nuovo sul fronte. Nelle sue dichiarazioni dice le solite cose esistenzialmente profonde, della serie “siate folli” “siate pazzi”, “rompete gli schemi”. I classici consigli che interpretati e classificati dalla media dell’umanità porterebbero generalmente ad una notte in commissariato.
Sì perché generalmente nelle parole di questi extraterrestri – alla Seth Godin, Scott Galloway o Reid Hoffman di LinkedIn – si colgono concetti dirompenti. Talmente dirompenti che nella catena di comunicazione tra loro e noi inevitabilmente luccica la parola, ma si perde il messaggio. E quindi continueremo a ritenerli mostri sacri, inarrivabili. Extraterrestri. Esempi di una vita che non ci appartiene, favole moderne riflesse nell’archetipo di Biancaneve dei nostri 5 anni.
Di esempi positivi comunque è bene circondarsi, anche solo per la nostra salute.
Ma io adesso non voglio più libri di Zuckerberg.
Io voglio un libro di John Antioco.
John Antioco.
Ma chi è John Antioco?
Facile. E’ il nome a cui ricorre Hastings nella sua intervista, per mettere la prima coordinata nel suo grafico del successo. Antioco fu colui da cui Hastings andò a trovare tanti anni fa insieme al socio, per vendere Netflix e diventare suo dipendente. Antioco gli disse no. Reed tornò indietro incazzato e con la coda tra le gambe, senza sapere che qualche anno dopo avrebbe fumato una Winston steso sul suo cadavere.
Antioco era il capo di Blockbuster, per intenderci.
E io voglio un suo libro. Non l’omeopatico siliconvalley-spot “fail fast fail often”, io voglio direttamente l’antibiotico: “Ero CEO di un’impresa che aveva ricavi per 5,9 miliardi di dollari, una quota di oltre 9mila store e 84mila dipendenti, ma poi ho fallito. Punto”.
La storia dei vinti, insomma. E non perché siamo perdenti e stiamo bene tra noi, ma perché è lì che nasce la teoria più forgiante nel business: la capacità di riflettere sugli errori.
Leggere le storie di fallimento dei mostri sacri e pensare che possiamo davvero rispecchiarci è una finzione. E’ una pacca sulla spalla. Non che faccia male o che dobbiamo evitare i loro libri, ma sarebbe meglio alternarli a quelli dei vinti. A quelli che raccontano un errore definitivo. Ecco, l’immedesimazione nell’errore definitivo interrompe l’incantesimo. Ci riporta alla realtà, che poi sarebbe l’obiettivo più profondo di queste letture. Passiamo da uditori assuefatti di storie a lieto fine ad ascoltatori attenti a difendere noi stessi. Torniamo veramente a noi, togliendoci finalmente dalla testa quell’approccio da romanzo Harmony.
E invece no. Libri sugli errori definitivi ce ne sono pochi. A riprova che la cultura del fallimento, quella vera, ancora non c’è. Il vinto può apparire in pubblico, a patto che dimostri di avere vinto successivamente. L’America forse non è così distante.
John Antioco non l’ha scritto il libro che leggerei. Non gli sarebbe convenuto. Gli errori definitivi non rassicurano. Però a me sarebbe interessato molto anche il suo punto di vista su quel famoso incontro con Reed Hastings.